Relazione di Psicopatologia Applicata di Antonio Muccio
Introduzione
«Quant'è bella giovinezza,
Che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto, sia:
Del doman non v'è certezza»
(Lorenzo de'Medici)
Gli uomini non hanno mai abitato il mondo, ma sempre e solo la descrizione che di volta in volta il mito, la religione, l'arte, la filosofia, la scienza hanno dato di esso; una descrizione attraverso parole rigorose poste agli antipodi dell'universo, sia per la sua determinazione che per la sua declinazione. L'ordine delle idee ha così tracciato un itinerario e consegnato al soggetto una direzione, un senso, ed un fine palesemente oggettivo. Orientato ad una meta l'uomo ha preso a vivere l'inquietudine dell'attesa e del tempo che lo separa dalla stessa, un tempo non più descritto come ciclica ripetizione dell'evento cosmico, ma come irradiazione di un senso che trasfigurò l'accadere degli eventi in storia. Proprio la metamorfosi del tempo come rappresentazione anacronistica, tipica nella cultura del mito greco, ad una rappresentazione di linearità, di cui è intrisa la società moderna e contemporanea, che ha indissolubilmente fuso quello che è il concetto di tempo con quello di spazio. Un tempo misurabile che, per dirla con Bergson, è un tempo assimilato allo spazio, concetto che modifica di conseguenza le possibilità e le modalità dell'esperirlo.
In breve, con l'idea di tempo, si vuole intendere l'intuizione e la rappresentazione della modalità con cui i singoli eventi si susseguono e sono in rapporto l’uno con l’altro (per cui essi avvengono prima, dopo o durante altri eventi), visto o come fattore che trascina l’evoluzione delle cose o come scansione ciclica e periodica, nonché come agente di trasformazione dello stato di "avvenire" in quello di "avvenuto", a seconda che si enfatizzino il loro concatenarsi o l’irreversibilità delle vicende umane; tale intuizione è, ad ogni modo, condizionata da fattori psicologici (gli stati della coscienza e della percezione, la memoria) e diversificata storicamente da cultura a cultura. Come avrebbe detto l'autore ciò che definisce questo lavoro è il sottotitolo: il concetto di tempo in relazione al vissuto del lutto. Oggetto di questo elaborato è, dunque, prima di ogni cosa la descrizione del concetto di tempo trattato da Minkowski ed in secondo luogo mettere in relazione questo con il vissuto del lutto. Quindi, tenendo presente quella che è la concezione di morte dell'autore, indagarne i processi psichici sottesi.
Il problema del tempo, generatore di conflitti profondi nella nostra esistenza, è al centro della psicologia e della filosofia di Eugène Minkowski, il quale, fortemente influenzato dal pensiero filosofico di Henri Bergson, ci introduce nei meandri dei concetti di avvenire, di tempo caratterizzato qualitativamente, di slancio personale e di morte; estendendo così, in forma critica, il campo psicopatologico in quello della vita psichica, che possiamo ermeticamente definire come normale. Minkowski viene considerato il fondatore dell'analisi esistenziale o Daseinanalyse. In realtà la daseinanalyse è suddivisa in una vasta gamma di correnti letterarie accomunate dalla necessità di donare risalto alla concretezza dell'esistenza, la quale viene spesso intesa come il Dasein, o essere nel tempo, di Heidegger. È bene, tuttavia, notare che l'Existenzerhellung, ossia la chiarezza sull'esistenza, è tipica dell'esistenzialismo inteso nel senso di Jaspers.
La daseinanalyse studia tutte le modalità con le quali si manifesta nel mondo l'essere umano, sia esso sano o malato. Superando la visione dualistica soggetto/oggetto, la daseinanalyse permette di sciogliere l'incomprensibilità della patologia mentale, mettendo sullo stesso piano di possibilità tutte le modalità esistenziali, abolendo così la distinzione sano/malato di matrice positivista. Si sposta l'attenzione ormai in maniera definitiva dall'osservazione e catalogazione delle manifestazioni sintomatologiche del patologico, all'indagine dei modi con i quali la persona sofferente esprime se stessa nel mondo.
La analisi della temporalità vissuta di Minkowski consente di porre in rilievo gli aspetti formali e strutturali dello psichismo consapevole, collegando ad essi il contenuto affettivo conflittuale inconscio. Non ci si limita più quindi all'osservazione del patologico e alla catalogazione del morbo in base alle manifestazione sintomatologiche, si analizza il vissuto del paziente nella sua totalità, si cerca di studiare il suo essere nel mondo. In quanto dell'uomo viene studiata non solo la psiche, ma la totalità del suo modo di vivere, la sua piena esperienza individuale e sociale, la psicologia esistenziale non si arresta all'enunciazione di categorie astratte, ma cerca di scoprire come tali categorie vengono vissute.
Il termine “vissuto” è il punto centrale che bisogna comprendere, con questo si intende il percepirlo in prima persona. Quindi diviene opportuno accettare come paradigma di base una visione olistica del paziente, intesa come consapevolezza dell'esistenza, all'interno della persona, di un vissuto soggettivo intrascendibile dalla stessa forma mentis che lo esperisce e lo contiene, e che esperisce allo stesso modo il mondo esterno collocandosi nello spazio e nel tempo.
Saggio breve sull'aspetto temporale della vita
«L''uomo è l'unico animale per il quale
la sua stessa esistenza è un problema che deve risolvere»
(Erich Pinchas Fromm )
Crono, dio e titano del tempo, è una figura ancestrale che, giungendo a noi dal mondo e dal pensiero ellenico, descrive quella che è un'idea, tanto primordiale quanto attuale, delle fattezze di questa massa fluida (Bergson) che ci circonda e ci satura. Nel mito, Crono è un padre oppressivo ed ossessionato, che divora tutto ciò che genera. Rappresentazione che d'emblée desta turbamento ma, sollevando nell'aria controversia, risveglia un quesito su quelle che potrebbero essere le sembianze di questa entità che ci pervade, il tempo. Nell'opera di Minkowski lo sforzo si protrae verso la concezione di una fenomenologia della temporalità e, prendendo come principio di base la ricerca di quelli che vengono definiti concetti primitivi, ricostruisce a ritroso la struttura del tempo; nel peculiare, appunto, del tempo vissuto. Quello che in primo luogo è un concetto da sviscerare, nonché incipit discorsivo, è l'interezza della temporalità, la determinazione di questo mare magnum che è il divenire. Di fattura sconfinata, il divenire ci affolla, ci precede, e ci anticipa, pur rimanendo inafferrabile è rappresentabile sotto l'ordine delle idee che scaturiscono dall'essere, dall'esistere. Il divenire è un tempo che non appartiene all'uomo, è l'uomo invece ad appartenervi, ed a rappresentare per esso uno scaglione, una contingenza in
senso filosofico. Questa entità sconfinata ed irrazionale, che è il tempo, ci attraversa senza “solutio continuitatis”, ci appare in tutta la sua purezza unicamente quando sia il pensiero che l'azione tacciono lasciando emergere la continuità, quell'intercalare che aleggia tra il tempo irrazionale, quello di Crono, ed il tempo lineare, quello determinato dalla tecnica.
Il divenire così fatto, inarrestabile e irripetibile, non può altro che far riecheggiare nella nostra memoria il πάντα ῥεῖ ὡς ποταμός (tutto scorre come un fiume) di Eraclito. Un vissuto così definito e singolare che desta nell'autore la necessità di smembrarlo ulteriormente, tale da spingerlo a giungere ai concetti di durata e successione. Questi, accomunati al disegno eracliteo di divenire, danno vita a quello che Minkowski definisce come principio di svolgimento. Se la durata, quindi, consiste nel permanere della temporalità, questa non determina immobilità, né preclude la successione, che invece restituisce mutualmente legittimità e direzione al divenire. È questo un rapporto di dualità che si instaura tra durata e successione, che l'autore definirà come essere due; pensiero che contrapporrà all'essere uno rappresentato dal divenire, dal πάντα ῥεῖ. Procedendo a grandi passi, quindi, possiamo notare come dal divenire si sia potuto giungere alla definizione di presente. Il presente, frutto del principio di svolgimento, è un adesso omogeneo, dispiegato, esteso, il quale a differenza dell'adesso, troppo contratto nell'immanente per essere colto, ci dona un senso di pacificazione e di conciliazione tra il divenire ed il divenuto.
La definizione di queste entità temporali è necessaria a spianare la strada alla comprensione ed alla capitolazione del tempo vissuto, in quanto solo attraverso l'ermeneutica degli enti fondanti possiamo giungere al vissuto peculiare. Di fatto, grazie ad i concetti acquisiti, possiamo affermare la spazialità direzionale del divenire, direzionalità che applicata al dasein, l'esistenza dell'uomo, lascia scorgere all'orizzonte l'essenza dell'avvenire.
Propedeutica all'assimilazione dell'avvenire è la comprensione di quello che Minkowski chiama slancio vitale, questi è il progredire spontaneamente che dà un senso al divenire. L'autore nel descriverlo decontestualizza le istanze freudiane rapportando lo slancio
vitale al Super-io e lo slancio personale all'Es, visto come coscienza dell'inconscio e generatore motivazionale a cui accostare la coscienza di sé, la quale rende possibile l'affermazione dell'Io (sempre nell'accezione dell'esistere heideggeriano e non di tipo
freudiano). La trasposizione delle rappresentazioni dinamiche, nei riguardi del vissuto della temporalità, ha come scopo quello di donare una struttura eterogenea e concreta al concetto di movimento implicito nel divenire; speculando sulla gerarchia delle istanze.
Lo slancio vitale è, quindi, quella forza che spinge l'essere vivente, è la direzione, è ciò che ci svela l'esistenza dell'avvenire. Innescando un meccanismo di compenetrazione, lo slancio vitale spinge la vita attraverso gli esseri che vi partecipano, pur continuando al di là del loro stesso essere compiuti; parafrasando le parole dell'autore possiamo dire che non siamo noi che viviamo ma è la vita a vivere in noi.
È proprio in questa ottica che si palesa cristallina la ragion d'essere dello slancio personale, ossia l'esperire intimamente lo slancio vitale. Focalizzando l'attenzione sugli aspetti peculiari dello slancio personale è possibile notare come questo si presenti: è un primitivo desiderio di vivere ed agire, conferisce un ruolo, dona un posto, suggerisce all'uomo l'idea di essere l'espressione di qualcosa che lo supera nettamente, ossia il divenire. Attraverso la dicotomia tra slancio personale e slancio vitale, si percepisce cogente la necessità di scavare a fondo, entrando nel campo descritto dall'autore come superindividuale; determinando in maniera sempre più accurata la fenomenologia della temporalità vissuta. Per soddisfare queste esigenze, si ritiene opportuno scomodare, dopo Eraclito, anche Socrate. Celeberrimo il motto ellenico γνῶθι σεαυτόν (conosci te stesso), che introduce il concetto di introspezione, guardarsi all'interno, andare in profondità, da dove sgorga il vero slancio, quello verso il bene. È proprio la dimensione della profondità a far sì che non ci si possa mai conoscere pienamente, fino in fondo, né noi stessi né gli altri, ma è esattamente quest'ordine di idee che ci rende simili e ci accomuna.
Lo slancio vitale, quindi, ci spinge verso l'operosità, dove il termine opera viene inteso nell'accezione più vasta possibile. L'opera è di conseguenza il prodotto tangibile dello slancio personale, è destinata a sopravvivere al suo manufattore (in quanto ispirata dallo
stesso divenire), e proprio con l'opera lo slancio si compenetra con il divenire in una dualità indivisa che si impregna di materialità. Tra opera ed affermazione dell'io, lo slancio combatte con il divenire e concede la possibilità di realizzare l'opera medesima,
trattenendo il respiro nell'arco della durata, ma impedendo di “conoscere ancora nella vita”, generando così la limitazione, l'incompletezza, la proprietà di ricopertura. È necessario puntualizzare che tra la realizzazione di un opera e l'altra esistono dei
momenti di riposo, il concetto di riposo dall'opera è “contemplativo”, è concepito come ritorno nel divenire.
A quest'ordine dato il divenire appare sotto nuova forma più precisa e definita e, distogliendo lo sguardo dallo slancio personale, non troviamo vuoto e caos ma, subordinato ad esso, scopriamo il contatto vitale con la realtà: l'avanzare armoniosamente con il divenire ed esperire il sincronismo vissuto, camminare con il tempo ed in accordo con esso in un ritmo unico. Il contatto vitale è contemplazione,
simpatia (συμπάθεια, ossia condividere l'emozione, un concetto primitivo che porta in sé la concezione di alterità). Lo slancio personale, così, oscillando tra opera e contemplazione, mostra il suo carattere dinamico. Riguarda l'interpenetrarsi dello stesso
slancio personale e del contatto vitale con la realtà, tra l'essere ed il divenire; il contatto di per sé non può soddisfare, necessita dello slancio, ma non può essere creato da esso. Ora non ci resta che fare un ulteriore passo avanti ed analizzare l'avvenire. L'avvenire è
più diretto del passato in quanto non consiste in un “rivivere” o in un vivere “nel” e per questo primo oggetto di osservazione.
Per quanto paradossale, il divenire non sembra aver presa sull'avvenire, il quale è inesauribile: immediato, mediato e limitato. Il più stabile dei punti cardinali del tempo, mentre il presente, ad esempio, svolgendosi, sembra più o meno fugace, come anche il
passato si allontana man mano da noi, l'avvenire invece non si muove, per lo meno non si muove tutto insieme. L'avvenire è proiettato in avanti, è perenne, implacabile, neanche le onde del divenire lo raggiungono, le quali andando verso l'infinito, perdendosi nella lontananza, lasciano al di fuori come un margine vuoto e stabile ed è questo margine che ci fa parlare di orizzonte, è esso pure che conferisce il suo vero carattere al fenomeno dell'avvenire.
Già nello studio dei fattori essenziali dello slancio personale più di una volta si è detto che questi apre ampiamente l'avvenire davanti a noi come più di una volta si è parlato di linearità spazio-temporale, ma una sola dimensione spaziale è insufficiente a descrivere
la potenza dell'avvenire. L'avvenire è mediato in quanto compenetrato dal divenire e dallo slancio vitale, limitato perché non può estendersi inverosimilmente oltre i confini del divenire, ed è immediato nella sua comprensione come nel suo rinnovarsi perpetuo;
per quanto dinamico, quindi, l'avvenire si manifesta in stabilità ed indeterminazione.
A differenza dell'avvenire, il passato non ci attende ma, completamente in blocco, si allontana dalla nostra esistenza. Bisogna escludere a priori il pensiero che il solo modo di vivere il passato consista nel sapere qualcosa sul suo conto, altrimenti questo sarebbe stato qualcosa di morto, una vera tomba, e quasi non varrebbe la pena conoscerlo, senza contare che la sua natura temporale si troverebbe soppressa. Dominio del nostro sapere, il passato non avrebbe più nulla a che vedere con il tempo vissuto. Tuttavia in realtà il passato non ci sembra affatto privo di vita, sottolinea l'autore, lo testimoniano le espressioni come “vivere nel passato” o “rivivere il passato”.
Con pungente acutezza, Minkowski, innesta ora un nuovo elemento che dirompe nel passato: il passato non solamente è stato, ma non è più. La negazione è penetrata nel tempo. Il tempo, da questo momento, si razionalizza da se stesso. È il ricordo che, in modo del tutto diretto, ci mette in relazione con il passato. Qualcosa che è accaduto “qualche tempo fa”, quello che è un lasso di tempo, un intervallo vuoto, non definito. Il ricordo giustappone così, in maniera immediata e di per sé, due punti del tempo in relazione tra loro, dove uno prende la forma del presente e l'altro quella di un punto del passato, separando i due da un intervallo vuoto. In altri termini esso non ci dice solo che un determinato evento è stato, ma anche che non è più, pur essendo apparso alla coscienza dopo un intervallo più o meno lungo. Proprio così, attraverso l'analisi di quelle che sono le istanze della temporalità che si chiude il disegno di quello che è il tempo vissuto.
La morte
Amore, mio giovane emblema […]è l'ultima volta che miro[...]
morte, arido fiume...[...]. Colla mente murata,
cogli occhi caduti in oblio, farò da guida alla felicità.
(Giuseppe Ungaretti)
È interessante notare come Minkowski, analizzando il fenomeno della morte, decida di prendere per punto di partenza la possibilità che essa non esista. L'autore ipotizza una semplice operazione matematica, che consiste nel sottrarre alla vita tutto ciò che la
morte le toglie; semplice tentativo di uno “spirito ingenuo” di figurasi quello che potrebbe essere la vita senza la morte. Così facendo sorgono immediatamente numerose problematiche e dilemmi. Bisognerebbe, innanzitutto, cercare di figurarsi la struttura di una vita sconfinata, quindi diverrebbe difficile a questo punto intendere il tempo non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente. Come accenna l'autore, persone, affette da delirio melanconico con idee di negazione , si dicono immortali e si lamentano di essere esposte a sofferenze eterne, di desiderare quindi la morte. Ovviamente non è una prospettiva auspicabile, ma, a meno che la sorte non si accanisca in maniera particolare contro un esistenza rendendola insopportabile, la vita non è fatta di sola sofferenza; quindi il desiderio della morte, come liberazione, non può di conseguenza esaurire il ruolo positivo della morte nella vita. Si discute, quindi, di questo ruolo positivo. Di fronte alla morte ci si diventa rispettosi e gravi e ci si inchina sulla fine di una vita, non della vita, ma proprio di una vita. La morte fa nascere la nozione di una vita e lo fa mettendovi fine, in maniera irreparabile, per questo essa si conforma come fenomeno vitale; in contrapposizione all'inflazionata considerazione che si ha della nascita, che è solo un fatto biologico.
Quindi, la morte è essenzialmente un fenomeno individuale, non perché non colpisce che individui, ma perché perfeziona la nozione di individuo. La vita non si esaurisce, è l'essere vivente che muore e per essere un essere vivente, cioè un essere che sia vissuto, che abbia una vita dietro di sé, bisogna essere mortali.
Due fattori, nel cammino della vita verso l'avvenire, possono ora essere distinti. Uno è il cammino verso l'avvenire in tutta la sua grandiosa potenza, l'altro è l'incamminarsi verso la morte. Certo, per la ragione, allontanarsi dall'inizio è avvicinarsi in ugual misura alla fine. Ma i fenomeni vitali non si adattano alla nostra ragione. Qui si tratta di due atteggiamenti: vado verso l'avvenire e vado verso la morte; in realtà sarebbe stato più esatto dire: la vita in me va verso l'avvenire ed io invece vado verso la morte. La vita comune è dominata da un atteggiamento o dall'altro, indipendentemente dall'età biologica.
La ragione, d'altronde con il suo culto del “calcolo”, si esaurisce nel voler rispondere a ciò che infondo non è che mistero, spinta dallo slancio del divenire, si chiede cosa sarà dopo la morte. Ma la morte non è problematica perché colpisce la nostra immaginazione, ma per la sua stessa essenza; l'unico punto di certezza è nell'avvenire. Nell'avvenire, fatto finora di slancio e di dinamismo, ora si pone un limite. Si acquisisce così la prima conoscenza a proposito dell'avvenire: So che morirò, so che non ci sarò più. Ciò che più importa è che, se si conoscesse prima, in piena vita , la data della nostra morte, probabilmente non potrebbe più vivere. Ciò non toglie che è la morte a darci un dato, quello cioè che qualcosa di preciso deve necessariamente accadere nell'avvenire.
Vista dall'avvenire che ci si porta dentro, la morte non è altro che un incidente che merita appena di essere ricordato; vista dal presente, invece, essa sembra essere un limite fatale dietro il quale non c'è più che il nulla. Questa situazione, apparentemente
contraddittoria, si risolve nello sguardo volto sempre, grazie allo slancio, al di sopra della morte, problema che non esige e non tollera nessuna risposta precisa.
Conclusioni
Il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona amata o di un'astrazione della stessa che ne ha preso il posto. Questo legame con l'oggetto, in quella che è l'accezione di Minkowski, ci riporta al sentimento di simpatia, il quale, creando un ponte tra il soggetto e l'oggetto stesso, urta con il concetto di ruolo positivo della morte, che determina una vita, ma la separa inevitabilmente dall'esistenza vissuta. La stessa situazione produce in alcuni individui, nei quali sospettiamo perciò la presenza di una disposizione patologica, la melanconia invece del lutto. Il vissuto del lutto, quindi, ci riporta al concetto di negazione insito nella morte e
lapalissiano nel passato. Il soggetto, non riuscendo ad accettare la determinazione dell'oggetto amato, scinde la sua esperienza temporale in un avvenire che porta con sé il simbolo perduto, mentre parallelamente il divenire incalza sulla propria esistenza.
È come se il fluire dello slancio vitale, in un meccanismo di compenetrazione, si arrestasse negandosi assieme allo stesso oggetto e, entrando in conflitto con l'avvenire soggettivo, determinasse un senso di alienazione.
Laddove per alienazione, in questo caso, si intende l'allontanarsi da quello che è la nozione di ciò che è stato e che non sarà più. Fondamentalmente è possibile ipotizzare che il frutto dell'evento drammatico, ovvero il lutto, sia un disturbo della struttura del passato; il quale non si allontana più in blocco dal presente, ma ne resta legato nella parte che concerne l'oggetto amato. L'esame di realtà dei fatti, quindi, dimostrata che l'oggetto amato non c'è più e comincia a esigere che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso con tale oggetto. Contro tale richiesta si leva un'avversione ben comprensibile; si può infatti osservare invariabilmente che gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica. Questa avversione può essere talmente intensa da sfociare in un estraniamento dalla realtà e in una pertinace adesione all'oggetto. La normalità dovrebbe portare il rispetto della realtà a prendere il sopravvento. Tuttavia questo compito non può esser realizzato immediatamente. Esso può essere portato avanti solo poco per volta e con grande dispendio di tempo e di energia d'investimento; nel frattempo l'esistenza dell'oggetto perduto viene psichicamente prolungata. Tutti i ricordi e le aspettative con riferimento ai quali la libido era legata all'oggetto vengono evocati e sovrainvestiti uno a uno, e il distacco della libido si effettua in relazione a ciascuno di essi.
Tale compromesso con cui viene realizzato poco per volta il comando della realtà risulta straordinariamente doloroso, proprio per la dissonanza generata dal conflitto tra avvenire e passato. È degno di nota il fatto che questo dispiacere doloroso ci appaia assolutamente ovvio, questo proprio perché il vissuto del lutto ed il suo conflitto con l'avvenire ci riporta mutualmente a quel punto fisso, ma indefinito, che è il sopraggiungere della morte stessa. È auspicabile, nell'ottica di Minkowski, che il potere dell'avvenire e dello slancio vitale portino al di là del concetto di morte, coinvolgendo la mente in un viaggio verso il divenire, verso la vita, quella che tutto coinvolge.
Antonio Muccio