Aveva scoperto, con grande sofferenza, di essere stata tradita e abbandonata: un impulso quasi naturale, quindi, chiamare l’ex marito “puttaniere” dinanzi al figlio e alla sua nuova compagna.
Ma per la Cassazione questa frase, detta in questo contesto, non ha carattere offensivo e, quindi, non integra il reato penale di “diffamazione”. Tutto infatti dipende dalle modalità e dal significato che si è voluto attribuire alla parola. ( in tal senso Cass. sent. n. 37397/16 dell’8.09.2016)
Difatti, il reato di diffamazione scatta solo quando la frase offensiva sconfina in una “gratuita aggressione verbale” nei confronti del soggetto criticato, volta solo a umiliarlo, deriderlo pubblicamente o ad aggredirlo. Quando invece, non c’è questo intento, la parola, seppur volgare e poco ortodossa, non ha connotazioni penali.
Nello specifico, la parola “puttaniere” – evidenzia la Cassazione – può avere, nel gergo comune, diversi significati. Di certo uno “offensivo”: ovvero di persona dedita alla frequentazione di prostitute. Ma anche uno “descrittivo”, un po’ ironico certo, ma corrispondente a una situazione di fatto: quella di donnaiolo, playboy o uomo alla perenne ricerca di avventure amorose frivole e passeggere. Un’accezione quest’ultima che è possibile ritrovare anche nel vocabolario della lingua italiana.
Pertanto, la stessa parola può assumere un significato diffamante e uno non: a seconda dell’intento di chi l’ha proferita. Tutto quindi dipende dalla situazione concreta in cui la frase è stata pronunciata e delle modalità. Situazione che il giudice è chiamato a verificare ed all’esito della cui analisi emettere il giudizio di colpevolezza o di innocenza.
E nella fattispecie in esame la Suprema Corte ha ritenuto che la donna, nel chiamare “puttaniere” l’ex marito, volesse solo additargli facili costumi e una volubilità non compatibile con gli impegni che il matrimonio impone. Sicché non c’era intento diffamatorio ma solo “descrittivo”!!!
Foggia, 19 ottobre 2016
avv. Eugenio Gargiulo