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Costruire grattacieli è un affare rischioso. In effetti, sono le dinamiche stesse dell’architettura di edifici così elevati e il loro simbolismo storico a suggerire un atto di sfida. Il Burj Khalifa di Dubai, ora l’edificio più alto del mondo, spinge l’atto di ribellione contro i limiti della fisica a nuove altezze – letteralmente!

 

 

Con oltre 100 piani, vanta la piscina più alta del mondo e, forse come forma di espiazione, anche la moschea più alta. Il suo campo da golf burj-khalifa-07necessita di più di 4 milioni di galloni d’acqua al giorno. All’inizio di gennaio, con grande sfarzo e ostentazione, il leggendario grattacielo ha finalmente aperto le sue porte al pubblico.

 

Inizialmente conosciuto come Burj Dubai, l’edificio è stato rinominato Burj Khalifa in onore dell’emiro di Abu Dhabi e presidente degli Emirati Arabi Uniti che ha salvato Dubai investendo miliardi di dollari. Immaginato e progettato da una società di Chicago, si dice che il Burj sia ispirato alla visione della Sky City dell’architetto Frank Lloyd Wright, che doveva essere costruita a Chicago, ma non fu mai realizzata per la mancanza di fondi e di manodopera. Nessuno di questi due fattori è risultato un problema nella costruzione del Burj, per il quale sono stati impiegati migliaia di lavoratori provenienti da Pakistan, India e Bangladesh per diversi anni.

 

Secondo quanto riportato, la grande maggioranza di questi operai non è neanche mai stata in cima al grattacielo che ha impiegato anni a costruire. Ma godere della vista dalla cima è l’ultimo dei problemi per chi ha lavorato alla costruzione del Burj. Secondo le accuse, sono in molti ad essere morti durante i lavori. Tali progetti di costruzione hanno sempre un elevato costo in termini di vite umane. Le cifre raccolte dalla missione indiana per un solo anno mostrano che circa 1.000 operai indiani sono morti, più di 60 in incidenti avvenuti sul posto. Le missioni del Pakistan e del Bangladesh non tengono il conto dei lavoratori morti probabilmente perché “scoraggiate” dalle autorità degli EAU. Si stima che gli operai deceduti in progetti di costruzione di questo tipo siano nell’ordine delle migliaia.

 

Alcuni giorni dopo l’apertura del Burj, un tribunale degli EAU ha assolto il fratello del presidente dall’accusa di aver percosso e torturato – evento che era stato registrato con una telecamera – un mercante di grano afghano. Sheikh Issa Bin Zayed Al-Nahyan era stato ripreso mentre picchiava l’uomo, riempiendogli la bocca di sabbia, bruciandogli le parti intime con mozziconi di sigaretta e percuotendolo con un’asse pieno di chiodi. Il video, che si può trovare su internet, mostra inoltre come lo sceicco abbia letteralmente rovesciato del sale sulle ferite sanguinanti dell’uomo.

 

La corte che ha giudicato il caso ha assolto lo sceicco sostenendo che egli si trovasse sotto l’effetto di stupefacenti. In altre parole, malgrado le prove schiaccianti, lo sceicco era semplicemente troppo potente per essere punito a causa del ferimento di un uomo che nel sistema vigente negli Emirati vale poco più di uno schiavo.

 

L’inaugurazione del grattacielo e l’assoluzione dello sceicco costituiscono una scandalosa giustapposizione dell’ipocrisia, dell’ingordigia e della brutale ingiustizia che si nascondono dietro la sfarzosa facciata di Dubai. Nessuna delle innovazioni o delle attrattive è locale; l’architettura è americana, il design europeo e la manodopera schiavizzata è sud-asiatica.

 

Solo il 10% della popolazione di Dubai è indigena e ha effettivamente un po’ di voce in capitolo su come l’emirato viene governato. Il resto, sia i lavoratori che la classe media colta provenienti dal Pakistan, dall’India e dal Bangladesh, sono semplicemente fin troppo felici di ingoiare il proprio orgoglio e accettare docilmente uno status di seconda-classe come segno di riconoscenza per aver ottenuto un impiego. I lavoratori tenuti allo stato di schiavi languiscono nei campi che li ospitano, indifesi e senza speranza, nelle mani di sceicchi e società che possono scegliere di abusare di questa manodopera a loro piacimento.

 

Nel frattempo, sembra che lo scandaloso contrasto tra una ricchezza illimitata e un vorace sperpero delle risorse non venga colto dalla classe media espatriata a Dubai. Banchieri, ingegneri e medici espatriati, che hanno ottenuto permessi di lavoro che hanno loro consentito di sfuggire alle buie prospettive dei propri paesi d’origine, consumano senza fare domande la ricchezza capitalistica di Dubai, senza mai riflettere sull’ingiustizia insita nel fatto di non avere alcuna voce politica. Essi passeggiano nei centri commerciali, guardano con venerazione i grattacieli e sfoggiano la propria bigiotteria come segni della propria superiorità economica con i cugini e i parenti rimasti a casa.

 

Mai una volta si sono chiesti su quali basi un governo possa pagare salari differenti a due persone usando come criterio la diversa nazionalità. Né si domandano cosa giustifichi la presenza di “campi di lavoro” dove gli operai faticano duramente per 18 ore al giorno e non vengono pagati per mesi, condizioni che provocherebbero manifestazioni di protesta in qualsiasi altro paese del mondo sviluppato. Allo stesso modo, i turisti che visitano Dubai provenendo da ogni parte del mondo, vengono imbrogliati dai fuochi d’artificio, dalle belle spiagge e dagli alti grattacieli senza fermarsi un momento a pensare alle disuguaglianze che sono alla base di tutto questo, e alle ingiustizie che lo rendono possibile.

 

È vero, l’ingiustizia esiste dappertutto e Dubai sostiene l’esportazione di manodopera proveniente dal Pakistan, le cui rimesse sono cruciali per la sopravvivenza economica del paese. Ma bisogna ricordare che il caso di Dubai è unico. Non vi è alcun luogo nell’Occidente contemporaneo in cui persone che vivono e lavorano, o addirittura sono nate, in un paese non abbiano la possibilità di partecipare alle decisioni di quel paese.

 

Se non verrà data voce a coloro che costituiscono la forza lavoro espatriata negli Emirati, il progresso di Dubai sarà sempre il risultato dello sfruttamento della povertà e del bisogno. Se il mondo si ribella davanti alle torture di Guantanamo, e protesta affinché gli Stati Uniti se ne assumano la responsabilità, allora dovrebbe anche chiedere agli sceicchi di Dubai di assumersi le proprie responsabilità senza lasciarsi ingannare dalle lussuose facciate dei loro grattacieli.

 

 

 

Rafia Zakaria è un’avvocatessa di origini pakistane che vive negli Stati Uniti; è direttrice di Amnesty International USA; scrive su quotidiani pakistani come il Daily Times e il Dawn.

 

Traduzione a cura di

Medarabnews.com

 

 

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